La vera storia dei prezzi del pane

Agostino Macrì
7 Aprile 2007
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Da un’indagine di “Help consumatori”, agenzia on-line sui problemi del consumo, è emerso che i prezzi del pane variano notevolmente da città a città, anche per lo stesso tipo. Per esempio, il casareccio costa il 40% in più nelle regioni settentrionali, rispetto a quelle meridionali. Queste indagini sono oggi molto difficoltose perché, dopo la liberalizzazione introdotta dal DPR n. 502/1998, ci sono tanti tipi di pane e non è semplice confrontare i prezzi. Comunque, non c’è dubbio che ci sono differenze notevoli fra città e città, poiché la storia dei prezzi del pane è assai lunga.

Molti ricorderanno che nel 1981, quando l’inflazione galoppava intorno al 20 per cento, il Governo concordò con i commercianti un “calmiere” di 19 prodotti di largo consumo, con prezzi massimi che non potevano essere superati (ma, in pratica, i massimi divennero fissi), in modo da frenare l’inflazione e permettere ai consumatori di fare una spesa più ragionevole.

In verità i calmieri o panieri, come alternativamente erano chiamati, erano 90, uno per ogni provincia, cosicchè ci si accorse con un certo stupore che l’Italia era una giungla di prezzi. Non si capiva in base a quale logica un chilo di riso dello stesso tipo dovesse costare 950 lire a Venezia e 1.250 lire nella vicina Trieste, un chilo di mozzarella 4.500 lire a Campobasso e 7.000 lire a Napoli e così via. Naturalmente c’era anche il pane, che andava dalle 730 lire di Potenza alle 1.400 di Milano, ma il prezzo del pane, almeno quello più venduto, era già fisso in ogni provincia molto tempo prima del calmiere, esattamente dal 1944. Per combattere la “borsa nera”, in quell’anno fu emanata infatti una legge che prevedeva fino a tre anni di reclusione per chi avesse venduto alcuni generi di prima necessità, tra cui il pane, a prezzi superiori a quelli stabiliti dall’autorità. Tale autorità era il Comitato centrale prezzi, alle cui dipendenze erano i Comitati provinciali prezzi, i quali dovevano stabilire i prezzi dei prodotti in base a certe “direttive” impartite dal Comitato centrale.

In verità la legge servì assai poco a combattere la borsa nera, ma i Comitati prezzi sopravvissero fino al 1993, quando un’altra legge ne decretò la fine in nome del libero mercato. Comunque, anche prima del “calmiere” del 1981 i prezzi del pane, perfino dello stesso tipo, variavano notevolmente da città a città e così oggi, che il prezzo è libero. Considerato che gli oneri di produzione –quali costo del lavoro, ammortamento impianti, interessi sul capitale investito, imposte sul reddito, energia elettrica, prezzo della farina, del lievito e del sale- sono presso che uguali in tutte le province, mentre altri come affitto locali, combustibili e acqua non sono molto dissimili oppure poco incidenti sul prezzo di un chilo di pane, ci si chiedeva il perché delle notevoli differenze.

In effetti, il Comitato centrale prezzi non aveva mai elaborato un metodo uniforme per consentire a tutti i Comitati provinciali un accertamento univoco dei costi del tipo da assoggettare a vincolo, limitandosi a disporre che il prezzo vincolato doveva riguardare il tipo o i tipi di pane che rappresentavano almeno il 40 per cento del consumo nella provincia (in Italia c’erano circa 300 tipi di pane). Cosicchè, ogni Comitato provinciale prezzi, formato da persone “alla buona” e non da tecnici o esperti, decideva alla buona: quando i panificatori avanzavano una richiesta di aumento, si riuniva una commissione che esaminava come meglio poteva i conti presentati dagli stessi panificatori, non avendo mezzi tecnici per fare accertamenti diretti e approfonditi specialmente sulla quantità di farina effettivamente lavorata e dei vari tipi di pane prodotti, sulla quota di utilizzazione degli impianti per gli altri prodotti da forno, sull’incidenza percentuale del tipo di pane vincolato rispetto agli altri, sulla quantità di pane importata da altri Comuni, sull’ideale guadagno del panificatore (problema assai spinoso e rimasto praticamente irrisolto), sulla quantità di pane direttamente venduta al pubblico a prezzo più remunerativo, eccetera. In genere, le discussioni si chiudevano con un “taglio” alle richieste dei panificatori, che ormai sapevano in partenza come sarebbe andata a finire: se chiedevano un aumento di 10 si concedeva 5, così tutti erano contenti.

Probabilmente è da questa annosa confusione che è nata la “costellazione” dei prezzi del pane.

Roma, 7 aprile 2007

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