Autarchia e sovranismo alimentari: analogie, pregi e difetti

Agostino Macrì
14 Maggio 2019
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In questi ultimi tempi si sta molto diffondendo l’idea del “sovranismo” alimentare italiano per cui dovremmo limitare o addirittura eliminare dalle nostre tavole il cibo di importazione. Non è una novità assoluta per il nostro Paese che in un passato non molto recente si è dovuto nelle condizioni di dover applicare l’autarchia che ha delle  similitudini.

Autarchia

Ricordiamo che lo scopo dell’autarchia è di realizzare l’autosufficienza alimentare eliminando le importazioni e nello stesso tempo favorire le attività produttive nazionali.

Nel nostro Paese il fascismo incluse l’autarchia tra i suoi principi economici..

In quel periodo la popolazione italiana si aggirava intorno ai 40 milioni e circa un terzo era impegnata nell’agricoltura. Esistevano ancora i latifondi e la mezzadria era molto diffusa.

La situazione economica generale era molto modesta e il consumo degli alimenti ne risentiva sia da un punto di vista qualitativo (pochi alimenti di origine animale), sia quantitativamente.

Ala fine degli anni ’20 venne condotta la “battaglia” del grano che permise di incrementare la produzione di frumento e quindi aumentare la disponibilità di pane e pasta.

La situazione precipitò nel 1936 quando al nostro Paese, a causa della guerra di Etiopia, vennero applicate delle sanzioni economiche. L’autarchia da scelta politica, divenne una necessità per cui si tentò di intensificare ulteriormente la produzione alimentare italiana per fare fronte alle esigenze dei cittadini.

Ricordiamo che il quel periodo i  consumi si basavano quasi esclusivamente su alimenti sotto forma di materia prima (frutta, verdura, cereali, leguminose, carne, pesce, uova, ecc.) che venivano elaborate nelle cucine domestiche. I pochi alimenti “trasformati” (salumi, formaggi, prodotti da forno, ecc.) erano prodotti prevalentemente da aziende artigianali che utilizzavano materie prime provenienti dallo stesso territorio.

Le caratteristiche igienico sanitarie degli alimenti spesso lasciavano a desiderare e le tossinfezioni alimentari erano piuttosto diffuse.

La maggior parte della popolazione seguiva, volente o nolente,  una “dieta mediterranea”, ma le aspettativa di vita erano decisamente inferiori a quelle attuali e si aggiravano intorno ai sessanta anni. Attualmente, anche grazie alle vaccinazioni e alla maggiore disponibilità di farmaci, si aggirano intorno agli 80 anni.

Il regime “autarchico” riuscì solo parzialmente a produrre dei benefici; le classi sociali più disagiate si trovarono anche a soffrire la fame. Le cose andavano un po’ meglio in campagna dove era possibile coltivare frutta e verdura e anche allevare qualche animale. Una risorsa importante che raramente viene citata è stata la cacciagione che in quel tempo era relativamente abbondante. 

La rivoluzione industriale

A partire dagli anni sessanta il nostro sistema produttivo alimentare è profondamente mutato. I contadini hanno cominciato ad abbandonare la terra (da circa 10 milioni che erano negli anni ’50 sono scesi a meno del milione attuale). Sono state introdotte tecniche innovative che hanno permesso di ottenere produzioni più abbondanti per unità di superficie. La chimica è entrata prepotentemente in campagna con fitofarmaci, concimi, farmaci veterinari.

Nonostante le innovazioni produttive, lentamente, ma inesorabilmente la produzione primaria nazionale della maggior parte degli alimenti è divenuta sempre più insufficiente; solo alcuni settori (come ad esempio l’uva da vino) coprono interamente i nostri fabbisogni..

Una novità di assoluta importanza è stato il prepotente sviluppo di aziende alimentari che hanno avuto il merito di riuscire a “industrializzare” la produzione di tanti alimenti che fanno parte delle tradizione nazionale. Da notare che anche importanti prodotti tipici DOP e IGP, si ottengono con processi industriali molto raffinati. Questo processo ha consentito di sfruttare al meglio le risorse disponibili, di mettere a disposizione dei cittadini ottimi alimenti a costi contenuti e anche di esportarne molti.

L’industria alimentare ha trovato grande giovamento dalla globalizzazione dei mercati che reso disponibili le materie prime a basso costo e anche di ottima qualità.

Un altro sconvolgimento è arrivato dalla grande distribuzione (GDO) che ha “assorbito” un gran numero di consumatori acquirenti sottraendoli ai canali di commercio tradizionali.

Non di rado la GDO stipula degli accordi con i grandi produttori che sono in grado di rifornire in modo costante le merci da mettere in vendita.

I nuovi scenari hanno creato situazioni di crisi per l’agricoltura e la zootecnia tradizionali non sempre riescono a fare fronte alla concorrenza che arriva da altri Paesi che riescono a produrre materie prime a prezzi più bassi. Ad esempio il costo del latte in Baviera o in alcune regioni francesi è molto più basso di quello italiano.

Le conseguenze sono alle volte drammatiche; i nostri agricoltori rinunciano a raccogliere il frutto del loro lavoro perché verrebbe pagato meno dei costi sostenuti per produrlo. Questo avviene per la frutta, le olive, i pomodori.

Un dettaglio importante è che molto del lavoro agrozootecnico viene svolto da manodopera straniera e senza queste persone, spesso sfruttate senza un adeguato compenso, molte produzioni primarie sarebbero quasi impossibili.

Gli alimenti italiani sono molto apprezzati in tutto il mondo e, come accennato, la nostra industria alimentare riesce ad esportarne molti. Un importante spazio “commerciale” è stato coperto da produttori stranieri che imitano, a volte molto bene, i nostri alimenti. Basti pensare al “parmesan” o alla Cina che ha chiamato un città Parma per produrre gli omonimi prosciutti.

Il sovranismo alimentare

La situazione è molto complicata e a rimetterci sono soprattutto le nostre produzioni primarie. Per tentare di risolverla si è pensato di ricorrere al “sovranismo” alimentare.

La prima mossa è stata quella di riservare il marchio “made in Italy” agli alimenti prodotti in Italia. Si è poi tentato di imporre l’indicazione del luogo dove gli alimenti sono prodotti. Infine è stato chiesto di indicare il Paese di origine delle materie prime utilizzate per la produzione degli alimenti.

Il tutto è stato condito da una martellante campagna di informazione tendente a convincere i cittadini a consumare prodotti interamente italiani.

Alcune iniziative “sovraniste” sono state bocciate dalla Unione Europea perché contrarie alle norme che regalano gli scambi commerciale intracomunitari.

C’è stato comunque un florilegio di iniziative che ha visto organizzazioni politiche, sindacali, economiche, ecc. impegnate nel convincere i cittadini a consumare solo alimenti interamente italiani, senza però rendersi conto che non possiamo fare a meno di alimenti “stranieri” o quanto meno prodotti con materie prime di importazione. Per raggiungere l’obiettivo non si esita a tentare di fare passare il falso messaggio di una maggiore sicurezza degli alimenti italiani.

D’altra parte viene magnificata la capacità della nostra industria alimentare di riuscire a esportare gli alimenti prodotti, tralasciando di dire che spesso sono ottenuti con materie prime di importazione.

Di fatto però il “sovranismo” alimentare non sembra essere possibile al momento attuale.

Come accennato sui mercati internazionali c’è una grande disponibilità di materie prime a costi  molto bassi. Non si può però escludere che in un futuro, forse non troppo lontano, la situazione cambi e che aumenti la richiesta da grandi Paesi come la Cina e l’India e di conseguenza le materie prime comincino a scarseggiare.

Se ciò dovesse avvenire il nostro Paese dovrà organizzarsi per incrementare le produzioni primarie. La cosa non è impossibile e lo stanno dimostrando ampiamente alcuni Paesi come Israele e Olanda che pur essendo piccoli, per alcuni alimenti “primari” sono autosufficienti e addirittura riescono ad esportarli. Ricordiamo che in  Italia consumiamo agrumi di Israele e pomodori olandesi.

La speranza è che le produzioni primarie italiane siano fortemente incrementate facendo ricorso alla innovazione  e che il nostro Paese si impegni in una seria politica di rilancio della nostra agricoltura e zootecnia n modo da poterci affrancare, almeno parzialmente, dalla dipendenza da altri Paesi.

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