Le “porcarecce” di Roma: era meglio quando era peggio?

Agostino Macrì
31 Gennaio 2017
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Sempre più frequentemente si vedono dei filmati che riprendono scene raccapriccianti degli allevamenti. Si tratta spesso delle stesse immagini riproposte da angolature diverse che mostrano animali sofferenti e forse morenti; sicuramente non sono rappresentative della realtà degli allevamenti zootecnici e in particolare quelle dei suini. Per capire meglio può essere utile ripercorrere l’evoluzione degli allevamenti suini in Italia.

Ogni famiglia “rurale” possedeva qualche maiale che allevava in piccoli locali vicino alle case. Esistevano anche allevamenti con un numero maggiore di animali (al massimo qualche decina di capi) che vivevano allo stato brado o semibrado. L’alimentazione era basata soprattutto sull’utilizzo di scarti dell’alimentazione umana, sottoprodotti agricoli, ghiande, tuberi, ecc. Venivano seguiti gli andamenti stagionali e, in pratica, gli animali venivano macellati in pieno inverno per meglio conservare i salumi che venivano prodotti. Questi allevamenti venivano chiamati “porcarecce”.

Nella periferia di Roma, ma probabilmente anche in altre località, venne organizzato un particolare tipo di “porcareccia” basato sulla utilizzazione dei rifiuti solidi urbani. I “gestori” delle porcarecce si erano organizzati per la raccolta porta a porta dei rifiuti che poi trasportavano e depositavano in cave abbandonate dove venivano stabulati i suini. Questi, essendo onnivori, razzolavano tra i rifiuti e mangiavano tutto quello che per loro era commestibile. Insieme ai maiali c’erano delle persone che manualmente separavano e raccoglievano la carta, il vetro, i metalli presenti tra i rifiuti che poi rivendevano. Quello che avanzava, comprese le deiezioni dei suini, era periodicamente raccolto e usato poi come concime per i campi dove venivano coltivati prevalentemente degli ortaggi.

In queste condizioni igieniche molto approssimative la diffusione delle malattie infettive tra gli animali, ma anche tra gli uomini, erano molto elevate; per limitare i pericoli i maiali erano vaccinati contro le più importanti malattie infettive, ma non tutte. Nel 1968 infatti, a causa della introduzione nelle porcarecce di scarti di salumi probabilmente serviti su un aereo proveniente dalla Spagna e contaminati con il virus della Peste suina africana, la malattia si diffuse rapidamente tra tutti gli allevamenti con gravissimi danni economici. La malattia venne eradicata e la prima successiva misura fu quella di chiudere definitivamente tutte le “porcarecce” e quindi proibire l’uso degli scarti per alimentare i suini.

Da un punto di vista igienico è innegabile che la situazione attuale degli allevamenti sia migliore e non soltanto rispetto alle “porcarecce” romane. Bisogna però capire se gli animali liberi di razzolare tra l’immondizia e sotto le intemperie erano più “felici” di quelli posti in comode stalle climatizzate, con mangimi sempre a disposizione e con un costante controllo sanitario.

Non bisogna ignorare i diversi sistemi di macellazione. Nel passato gli animali venivano sgozzati e dissanguati da vivi e coscienti. Attualmente gli animali prima di essere uccisi sono resi incoscienti per evitare loro inutili sofferenze.

Le conoscenze scientifiche disponibili dimostrano che gli animali allevati con i sistemi attuali stanno meglio e forniscono carni salubri e sicure.

Basterà tutto questo per dimostrare che mangiare una fetta di prosciutto non è un crimine?

Fonte: “Blog Cibo e salute” La Stampa

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